“Inhale: one, two , three, four, five… exhale: one, two, three, four, five, six, seven…”. Tra sguardi confusi, curiosi e divertiti ci concentriamo sul nostro stesso respiro.
“Again. Inhale: one, two, three, four, five… exahle: one, two, three, four, five, six, seven…”. Espiriamo più lentamente di quanto non inspiriamo, il battito del cuore rallenta e un unico respiro volteggia nella sala. Così Jen Shyu, artista taiwanese a tutto tondo, cattura immediatamente l’attenzione con la sua forte e affascinante personalità. Lunga gonna di un rosso vivace, un sorriso contagioso e tante storie da raccontare. Song Of The Silver Geese, l’ultimo lavoro proposto dalla Shyu, affiancata da Chris Dingman al vibrafono, Mat Manieri alla viola e Dan Weiss alla batteria e alle percussioni, esplora attraverso sonorità avanguardistiche l’intrecciarsi di mito, esperienze personali e riflessioni introspettive sul nostro essere. Non per nulla l’album è stato inserito dal New York Times tra i migliori dell’anno corrente, e lo spettacolo a cui abbiamo avuto l’occasione di partecipare si è rivelato unico nel suo genere.
Forse è proprio vero quello che si dice: l’ispirazione che genera varie forme d’arte prende vita nel momento in cui si percepisce un’assenza e si tenta di colmare il vuoto da essa generato. Gran parte del lavoro della cantante e polistrumentista nasce infatti dall’elaborazione di un lutto che l’ha segnata profondamente.
Con suoni atipici, a tratti stridenti e strazianti e una voce letteralmente da brividi, Jen ricorda il tragico incidente stradale che tolse la vita ad un suo caro amico, maestro dell’arte delle ombre cinesi, alla moglie e al figlio neonato, lasciando incolume Nala, la figlia di sei anni. “Life is unpredictable”, dice l’artista con l’espressione sicura di chi ha dovuto affrontare momenti estremamente difficili e che ha trovato la forza per superarli rifugiandosi nell’arte. Non si parla solo di musica, ma di vera e propria recitazione: uno spettacolo teatrale con tanto di luci ed “effetti speciali”: sul palco c’è un telefono che squilla, voci registrate riecheggiano per la stanza e per terra è steso un enigmatico telo nero.
Imprevedibili. Non potremmo trovare parola migliore per descrivere le immagini che si sono impresse nei nostri occhi. Un alternarsi di atmosfere essenziali, suoni tipicamente orientali e una voce estremamente versatile, capace di muoversi dal parlato al cantato, dal cantato all’urlato e dall’urlato al silenzio. Le sensazioni sono contrastanti: se da una parte siamo rapite e affascinate, dall’altra è inevitabile sentirsi estraniati ed impressionati dall’eccentricità dell’intero spettacolo. Le scelte stilistiche dei musicisti sono inusuali, originali e non mancano di quel tocco di follia che incornicia l’intera serata e che esplode e si fa protagonista nell’istante in cui uno scoppio di luci, colori, grida e risate isteriche si scatena. Quando la tempesta si placa, ritorna la calma: i musicisti lasciano la scena a Jen Shyu che lentamente avvolge tra le braccia il telo nero simulando l’abbraccio materno che unisce teneramente una madre e un neonato, rivelando così una distesa di lucine e il loro chiarore luminoso.
“Yesterday a company of friends brought happiness
Today I’m alone, but not lonely
Life has no boundaries, when every place can be home”.
Con questo barlume di speranza e con un dolce e delicato “Thank you”, Jen Shyu si allontana dal palco, lasciandoci con il fiato sospeso e avvolti da una sensazione di stordimento, di libertà e di leggerezza. Sicuramente uno spettacolo del genere lascia la consapevolezza che difficilmente, senza un pizzico di stranezza e originalità, si possa scoprire un’autentica bellezza.
Olivia Santimone, Francesca Marchetti