
Intervista a Enrico Cipollini sul suo nuovo album “Crossing”
Il primo Luglio Enrico Cipollini ha pubblicato il suo nuovo album “Crossing” su tutte le piattaforme digitali a distanza di 4 anni dal suo debutto solista Stubborn Will; l’album è distribuito in Italia da IRD International Records Distribution.
A differenza del lavoro precedente questo disco vede la presenza di una band, gli Skyhorses, composti da Iarin Munari, Roberto “Fusco” Catani e Fabio Cremonini a supporto di Enrico ed altre special guest.
Il fatto che il concerto di presentazione del 18 Aprile sia saltato a causa della pandemia per il Coronavirus ha portato Enrico a rivedere i suoi piani sul disco.
Lo abbiamo incontrato per parlare dell’album e delle evoluzioni che ci sono state rispetto al lavoro precedente
Da quale esigenza deriva la scelta di fare questa svolta trap?
La svolta trap è dettata ovviamente dal voler seguire il mercato che è sempre una delle mie priorità da quando faccio musica.
A parte gli scherzi, raccontaci questo ritorno ad un ensemble più nutrito di strumenti.
Il discorso in realtà è molto semplice. Avevo scritto delle canzoni e registrato dei demo in casa con basso, batteria e piano per avere un’idea di arrangiamento. Poi le ho proposte alla band con cui stavo già suonando dal vivo e quando siamo andati in studio per la registrazione si è creato qualcosa di veramente unico, un alchimia e un sound che si è consolidato in maniera molto netta. Credo che nel disco si senta che abbiamo trovato il nostro suono. Basso e batteria sono gli stessi che hanno suonato anche nel disco precedente, Iarin Munari alla batteria, Roberto Catani al basso e con l’aggiunta di Fabio Cremonini al violino si è creata un ulteriore intesa fra tutti e quattro. Abbiamo registrato in presa diretta con tutti gli strumenti proprio per catturare al meglio il sound e l’interplay fra di noi e mi è sembrato giusto che il disco uscisse anche a nome della band proprio perché credo questo elemento sia identificativo del suono del disco.
Da dove viene il nome Skyhorses?
Skyhorses mi è balenato un giorno così dal nulla. Non ha un significato particolare ma mi piaceva molto il suono. Non sono uno di quei fanatici del nome della band anche perché se uno dei gruppi che vende più dischi al mondo si chiama Foo Fighters, penso che ormai valga tutto.
Nonostante sin dalle grafiche le atmosfere sembrano meno intime quanto più mistiche rispetto a Stubborn Will, l’intimità che si crea con l’ascoltatore pare essere stata ulteriormente enfatizzata.
Delle volte più arrangi un brano e più ti allontani dall’intimità con l’ascoltatore e ottieni altre cose, però nel genere che faccio io mantenere quel tipo di contatto secondo me è fondamentale. Non è stata una scelta fatta a priori, semplicemente abbiamo seguito quello che ci piaceva e il sound che si adattava meglio ai pezzi. Inoltre ci sono stati degli ospiti che hanno partecipato dando un tocco molto creativo ad alcuni brani. Sono Annalisa Vassalli (voce), Fabrizio Luca (percussioni), Nick Muneratti (basso), Joanna Marie (voce), Andrea Franchi (violoncello)
Come spesso ci piace sottolineare la collaborazione tra artisti è un valore aggiunto che è sempre più raro trovare. Questo disco è un bellissimo esempio di questa collaborazione che ha portato i tuoi brani a prendere strade che magari non avevi previsto prima.
Secondo me uno che scrive canzoni dovrebbe essere aperto all’idea che chiunque o almeno i musicisti che rispetti possano darti delle idee che tu non hai avuto. I produttori più grossi alla fine lavorano sulla musica di altri e se sono bravi riescono a dare una direzione e un sound che magari l’autore/compositore non aveva in mente. Nel nostro caso si è creata una vera e propria band dove c’è il contributo di tutti. La cosa che mi piace molto è che veniamo tutti da ambiti musicali diversi: abbiamo un violinista, Fabio Cremonini, che è un insegnante di musica proveniente dal conservatorio con formazione classica ma che gira con le catene e la maglietta dei Ramones. Iarin, che per me dire batterista è riduttivo, perché compone musica e arrangia anche per altri artisti oltre ad essere un batterista di grandissimo talento che ha suonato un po’ di tutto. Lui viene da mondo del funk come anche del pop. Fusco (Roberto Catani) al basso viene da un percorso più simile al mio, con band anche rock e quindi questo miscuglio di influenze diverse fa sì che il genere che facciamo sia suonato in maniera più personale con un taglio non tradizionale. Ci sono alcune band che mi piacciono molto che hanno al loro interno diverse influenze e rientrano in quel genere che negli Stati Uniti chiamano Americana, cioè la mescolanza di folk, blues e country, creando un sound particolare e diverso usando però strumenti della tradizione. Un po’ come stiamo facendo noi.
Che cosa significa suonare questo genere e come viene recepito in Italia?
Non è un genere mainstream, ma credo che abbia comunque una sua base di ascoltatori. Credo che ci siano alcuni generi mainstream, che magari hanno milioni di persone che li seguono, ma spesso sono generi che non reggono la prova del tempo.
Il folk, il blues il country e un certo tipo di rock si suonano da tantissimi anni e la gente continua a volerli ascoltare. Se fossero generi triti e ritriti che non hanno più nulla da dire, non venderei neppure una copia probabilmente e nessuno avrebbe la curiosità di venire ai concerti. In Italia si appartiene sicuramente ad una nicchia ma non me ne frega molto sinceramente. Quando scrivo non mi pongo il problema, anzi non mi pongo nemmeno la questione di restare dentro a questo genere. Se mi viene una buona canzone cerco di finirla e poi pensare a cosa farci.
Raccontaci il significato che ha per te il titolo “Crossing”.
Ha un significato piuttosto personale. Le registrazioni del disco sono coincise con un momento doloroso e di attraversamento di una fase della vita. Mi sembrava il titolo più azzeccato per questo album. In più, come dicevamo prima, questa mescolanza di contesti musicali da cui proveniamo e la varietà delle canzoni in cui si compenetrano diverse influenze mi ha fatto notare che questo concetto di “attraversamento” ritornava a più livelli.
Come già detto, in “Crossing” ci sono dei brani più impegnati a livello socio-politico rispetto al tuo precedente lavoro.
Si ci sono un paio di pezzi che sono effettivamente un po’ più impegnati come “History Repeating” e “Not Worth It” in cui mi sono voluto sfogare. Alcuni temi che affronto nel testo di “History Repeating” sono successivamente diventati ancora più attuali alla luce di quello che sta capitando anche se originariamente si riferivano ad un momento specifico. Come dice il titolo stesso è una storia che si ripete continuamente, purtoppo.
Nei testi di Crossing, ci sono entrambi gli aspetti: una proiezione verso l’esterno e una verso l’interno più intimista e personale.
Anche visivamente questo disco ha preso un’altra direzione rispetto al primo.
È una foto di Jacopo Aneghini e mi è piaciuta molto anche per il fatto che in mezzo agli alberi c’è questo attraversamento appunto “Crossing” che rimandava al titolo del disco. La grafica l’ha curata Cristian Bondandini che ha fatto un lavoro pazzesco.
Da questo disco a quello precedente è cambiato il tuo modo nell’approcciare le canzoni?
A me sono sempre piaciuti molto gli autori di testi che sanno raccontare delle storie. Io non sono però mai stato molto bravo a scrivere questo genere di testi. In questo disco invece ho provato a muovermi verso quella direzione. Ho letto da qualche parte che Springsteen diceva che per scrivere un testo lo immagina come se fosse un film.Nei suoi testi, in quattro strofe c’è un panorama che ti vedi scorrere davanti agli occhi. Essendo un fan di quel tipo di scrittura ho provato a farlo un po’ a modo mio. I primi due brani sono quelli dove ho usato di più questo approccio.
Il genere folk appartiene alla tradizione di altri paesi eppure il fatto che utilizzi queste sonorità per esprimerti riesce a portare alla luce sfumature del luogo in cui viviamo che altrimenti non verrebbero fuori.
Il bello della musica è che ognuno poi la filtra secondo la propria sensibilità. Non ho mai creduto alla storia che devi venire da un paese o avere il colore della pelle di un certo tipo per poter suonare un certo genere musicale. Sicuramente se cresci in un contesto in cui quel tipo di musica è largamente diffusa può essere d’aiuto ma non è strettamente necessario. È come dire che tutti i grandi scrittori devono nascere in mezzo ad ambienti letterari ma sappiamo bene che non è assolutamente così. Ci sono musicisti, mi viene in mente Jack White ad esempio, che è di Detroit dove nel mezzo dell’esplosione del Rap ha fondato i White Stripes, una cosa che non c’entrava assolutamente nulla con il contesto musicale che lo circondava. Si è rifatto ad una tradizione di generi che non sono della zona in cui è nato e cresciuto. Credo che sia sempre la tua direzione che fa la differenza e la tua sensibilità. Poi se esce qualcosa di originale proprio perché non vieni da quel contesto, alle volte può essere un vantaggio.
Quanto è durato il processo di scrittura di questo album?
Alcuni dei brani li avevo scritti già diverso tempo fa e li avevo suonati anche dal vivo, anche perché è una cosa che tendo sempre a fare. Ci sono due o tre brani invece che ho scritto poco prima di iniziare a registrare e che non ho mai suonato dal vivo. In tutto il processo di scrittura è durato qualche anno.
L’album doveva essere presentato il 18 Aprile alla Sala Estense. Quanto la pandemia ha rovinato i tuoi piani?
Guarda c’erano tutta una serie di cose fighissime che dovevano capitare. Era stato tutto programmato bene con la presentazione, un paio di date in posti belli, un mini tour da solo nella zona di Milano e Como e in estate volevamo anche girare un video. All’inizio ho aspettato per fare il concerto di presentazione. Poi sinceramente diventa inutile tenere l’album fermo lì. L’importante è che giri, che la gente lo ascolti. Quando ci sarà l’occasione di fare il concerto di presentazione con tutta la band in maniera seria si farà.
Può anche essere una cosa interessante e con un traino diverso proporre il concerto di presentazione con la gente che conosce già le canzoni.
Questa volta hai voluto, inoltre, pubblicare l’album anche in formato vinile.
Ho voluto fare il vinile anche perché è una mia passione infinita.E’ un bellissimo formato e abbiamo lavorato ovviamente con due mastering diversi uno per il Cd e uno per il disco.
Una cosa talmente importante che hai voluto specificarlo nelle note del booklet.
Sì, sono ancora convinto che il supporto fisico sia per me e la mia musica il modo migliore di condivisione con chi mi segue e chi vuole ascoltarla. Certe volte ci si scontra con la gente perché quello che non viene capito è che questo discorso che faccio non è un discorso nostalgico o da audiofilo. Il concetto è che siamo passati dall’ascoltare un disco in vinile con una determinata qualità, alle cassette, ai cd e infine ad un salto dove ascoltiamo musica comodamente ovunque ma la ascoltiamo malissimo, con scarsa attenzione e con una qualità pessima. Questo è il problema grosso.I nuovi formati digitali possono essere comodi per un certo punto di vista ma non sono quello che intendo come “ascoltare musica”. La musica per me si ascolta in altro modo, non facendo jogging, o la spesa, o al supermercato. Per l’ascolto come lo intendo io la qualità serve. Non vedo inoltre il motivo di andare in uno studio e registrare con dei Neumann da 7000€ per poi ascoltare il tutto dentro uno speaker grande qualche millimetro infilato dentro l’orecchio dove le frequenze medio basse non ci sono e vengono ricreate in maniera insensata. Produzioni da milioni di dollari finiscono lì in un file da 250kb. Speriamo che dopo questa sbornia digitale torni un po’ più attenzione alla qualità.
Come vivi esibirti con questo genere in Italia?
Mi è capitato di suonare in bellissimi contesti così come in situazioni dove non c’è attenzione a quello che stai facendo. Da musicista le ho sempre prese come allenamento. In queste situazioni si imparano tante cose. Non puoi fare la gara. Magari ti viene istintivamente di suonare o cantare un po’ più forte, invece è un meccanismo che funziona al contrario, più abbassi le dinamiche più puoi avere una chance di venire ascoltato. Negli ultimi anni sto suonando anche per strada ed è un altro contesto nuovo che mi piace perché si imparano un mucchio di cose.
Dei brani che hai scritto ce n’è uno di cui ricordi l’esatto momento in cui l’hai scritto.
Forse l’ultimo brano è quello che collego in maniera più precisa, specialmente nella scrittura del testo. Tra l’altro è stato perlopiù costruito in studio come arrangiamento e le idee che sono venute fuori mi sono piaciute molto dirottandomi dalla mia idea iniziale. Fa specie ascoltarlo adesso e ripensare al momento in cui l’ho scritto perché ha preso tutta un’altra strada.
Hai bisogno di un momento particolare per scrivere o capita anche che ti prenda l’ispirazione da un momento all’altro?
Il testo di “Out of Here” per esempio mi è venuto in mente mentre stavo camminando vicino alle mura di Ferrara. Avevo un frase che mi ronzava in testa da un po’ di giorni e ho cominciato a scrivere mentre camminavo. Normalmente invece capita che la tavola della sala da pranzo sia il mio luogo.
Utilizzi l’inglese per aggiungere un ulteriore significato al non detto?
La scelta dell’inglese riguarda una capacità di sintesi che l’italiano non ha e con cui si possono evocare un sacco di scenari diversi. Poi sono appassionato di letteratura americana e l’inglese quindi è una fissa. Spesso le frasi che mi colpiscono sono quelle che hanno la capacità di evocare immagini oltre al significato letterale. Sono dell’idea che neppure chi scrive un brano o un libro o una poesia conosca il significato di tutto quello che ha scritto, perché secondo me il processo di scrittura fa si che molte delle cose che tiri fuori siano associazioni che hai scelto perché ti piacciono e di cui non puoi spiegare il perché a parole. Sono tutte cose filtrate da te, in maniera spesso anche inconscia, e quindi alla fine tu stesso puoi attribuire un significato ad un brano ma la tua “traduzione” dal pensiero e dall’emozione alla pagina potrebbe aver fatto già perdere qualcosa e aggiunto altro.
Oltre a livello testuale, cosa è cambiato musicalmente nell’approccio a questo disco.
Una cosa per me nuova è che in questo album ci sono dei brani che sono stati concepiti già per lo studio come ad esempio “Down the Line” in cui suono il pianoforte nonostante il tema sia suonato con il dobro, situazione dal vivo irripetibile con la formazione attuale. Questa cosa non mi era mai successa prima perché sono sempre partito dal live. Inoltre proprio l’utilizzo del Dobro Squareneck ha cambiato molto il mio modo di scrivere la musica. Il fatto che consenta un numero limitato di accordi a meno che non ci sia un altro strumento armonico mi ha intrigato molto, è un po’ una sfida scrivere brani che stiano “in piedi” da soli. Per esempio il dobro che uso è accordato in re maggiore, e nel momento in cui vado a suonare un Si suonando solo la I e la V l’orecchio lo percepisce come minore anche se non c’è il terzo grado a definire l’accordo. Imparare a sfruttare questi aspetti dell’armonia è molto affascinante. Nella tradizione del country chi suona questi strumenti è sempre accompagnato da un altro strumento, di solito un basso, mentre invece nel mio caso quando suoniamo in duo suono con un violino. Abbiamo creato una cosa abbastanza atipica ma che mi piace veramente molto.
Immagineresti la tua vita senza musica?
No, proprio no. Non riesco neppure ad immaginarlo, da quando ho iniziato ad ascoltarla e poi e a suonarla, è sempre stata il fulcro di tutto il resto. Mi ci identifico proprio. Ogni cosa ruota intorno alla musica. Spesso non andavo al cinema con gli amici per stare in casa a suonare!
Il tuo sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe riuscire a suonare molto di più dal vivo con la band visto che il disco è stato concepito così.Il sogno sarebbe un tour nei teatri. Mi è capitato alcune volte di suonare in questo contesto anche in duo, ed è stato meraviglioso. Credo si adatti molto alla musica che facciamo.
Devo dire però che da un certo punto di vista il sogno che avevo l’ho realizzato. Quando ho iniziato a suonare volevo scrivere musica, fare dei dischi e condividerli con la gente e non è nulla di diverso da quello che sto facendo. Certo farlo su una scala mondiale sarebbe ancora più bello, ma le soddisfazioni che ricevo quando qualcuno mi dice che un brano che ho scritto gli è servito in un determinato momento della sua vita o semplicemente si è fatto un viaggio in macchina ascoltando la mia musica, sono le stesse di chi lo fa a livelli globali, anzi forse sono più amplificate perché c’è un contatto diretto con le persone.
Con questo ultimo disco Enrico Cipollini conferma di essere una realtà solida del panorama musicale locale ed un bell’esempio di musicista che evolve assieme alla sua musica e alle sue esperienze che lo portano ad avere nuovi compagni di viaggio e a compiere attraversamenti sempre rivolti verso il piacere di fare musica.
Raffaele Cirillo, Vittorio Formignani
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/enricocipo.79/
Puoi ascoltare il disco qua: